giovedì 27 ottobre 2016

In attesa di Beta... qualche parola su Glitch

In previsione della pubblicazione di Beta, mi sono concessa il lusso di rileggere Glitch, perché ci sono libri che divori e poi ci sono quelle sensazioni che ti porti dietro… quelle del “ne voglio ancora”.
Sono dell’idea che i libri ci scelgano, a seconda del periodo della vita che stiamo affrontando. Ebbene, Glitch è stata una lettura azzeccatissima. Ho portato il kindle con me ovunque, sperando di potermi ritagliare anche solo 5 minuti per entrare in un altro mondo.
Ecco, una delle prime cose che mi fa genuflettere di fronte a questa scrittrice (una eh… avrei altri mille motivi, ottocento dei quali non sono adatti ad orecchie innocenti) è la struttura del romanzo. Mirya ha creato un’impalcatura non solo solida, per la sua storia, ma accurata. Ogni dettaglio è incastrato alla perfezione all’interno della trama, ogni capitolo porta con sé non solo l’evoluzione del racconto ma anche una serie di indizi che, più di un percorso di mollichine di pane, è una fila di semi appena piantati.
Germoglieranno.
E come se lo faranno…
Dire che la storia è incentrata su Leanne e Caleb, a mio parere è inesatto.
Glitch è la storia di Leanne, di Caleb, di Edelweiss, di Ben, di Felicity. E di Adam, di Zhang Li, di Gregory.
Di Zero Uno e di Martia… e via così.
Perché dico questo?
Perché quando si scrive un libro, tessere una trama convincente, realistica, coerente è una delle azioni principali da compiere. La trama della storia deve essere in testa, tutta.
Per Glitch non si è trattato solo di raccontare, ma di creare ex-novo. E Mirya riesce in qualcosa che lascia stupefatti: crea il mondo Connesso. Capovolge la realtà e, così nascono i Tempi Sconnessi.
Ambienta il suo libro in una scuola e per ogni alunno, racconta la sua storia.
Perché un buon insegnante riuscirà a seguire un programma ministeriale, a far procedere una classe in maniera più o meno spedita ma… ma poi esistono anche gli ottimi insegnanti. Quelli che di trenta alunni non conoscono solo i voti.
In Glitch c’è tanto. C’è anche che Mirya è un’ottima insegnante.
Conosciamo tutti i personaggi, principali e comprimari.
Conosciamo gli Alter. Ed ognuno sarà diverso dall’altro. Ognuno avrà, nel tempo, un nome suo.
Ecco, senza farvi vedere quante ciocche di capelli ho nelle mani, posso solo dirvi che non avrete mai modo di confondervi, che quando leggerete di Edel avrete il sorriso, sempre, e vi chiederete perché. Che amerete Ben, vorrete fare (ehm) di tutto a Caleb, ma un cinque a Felicity glielo battereste ogni tre pagine. Che quando arriverà la lezione di Particelle starete trascinando pure voi i piedi e quando Leanne deraglierà, vi batterà forte il cuore come se a farlo fosse stati voi stessi.
Glitch è una storia.
D’amore, d’amicizia, di rispetto,di paure, di ingiustizia.
Di crescita.

Alla fine della lettura, ringrazierete di avere già Beta tra le mani.

Glitch lo trovate qui

sabato 30 gennaio 2016

Family is every day!

Sgorbietto si sciroppa quattro ore di terapia a settimana da un anno e mezzo. Da un anno e mezzo ad oggi, ogni settimana il centro di riabilitazione mi vede sua ospite per quattro ore, quattro lunghissime ore e, come me, altri genitori peregrinano nella sala d’aspetto cercando di riempire il tempo come possono. Qualcuno ne approfitta per sbrigare qualche servizio, qualcun altro aiuta i figli a svolgere compiti per la scuola, molti chiacchierano tra loro, qualcuno ancora si ritira in un angolino a leggere dal proprio kindle (una a caso…).
Lo so, sono asociale.
Lo so, sono una pessima persona.
Don’t judge me.
Quando sollevo lo sguardo dal kindle, vedo cose che mi fanno pensare a quanto sono fortunata e a quanto lo è mio figlio che, in quel centro, ci va solo per correggere la CI che lui pronuncia SCI. Vedo persone che sorridono quiete e continuano a farlo quando vengono riportati i loro figli, felici che, forse, quel giorno hanno imparato a infilare il giubbotto. O forse no ma, prima o poi, magari ci riusciranno.
Sarà che sono diventata diffidente di natura, più probabilmente sarà che mi sforzo a tutti i costi di imparare ad esserlo, a malapena conosco il nome del bimbo che, da un paio di mesi, fa terapia insieme a sgorbietto.
Bene, ieri sera è successa una cosa. Il bimbo che fa terapia di gruppo con il mio finiva il suo percorso riabilitativo ed era stata organizzata una festicciola di saluto. Al termine, la madre mi ha chiesto di darle un passaggio perché non aveva l’auto. Accetto senza problemi, facciamo pure la stessa strada. Per la prima volta in tanto tempo, scambiamo qualche chiacchiera.
Mi spiega che l’auto, in verità, l’avrebbe anche, ma non può permettersi di pagare l’assicurazione. Non ne ha mai fatta una e le tocca di pagare il massimo, partendo da una prima categoria. Mi spiega che non le è permesso usufruire della legge Bersani, perché è separata e il suo ex-marito le ha detto chiaramente che può pure arrangiarsi, non sono problemi suoi come fa a portare il figlio a riabilitazione.
Io annuisco, ma taccio. Ho imparato da tempo che le persone hanno alle spalle tante storie diverse e che non si dovrebbe mai giudicare, senza conoscere i fatti. Taccio, ma sento un po’ l’embolo partire.
Chiedo alla mamma dove deve arrivare, non ho problemi a portarla dove vuole, anche se significa deviare dal mio percorso abituale.
Nel tragitto, le chiacchiere diventano piccole confidenze.
Ha sempre il sorriso sulle labbra, questa mamma, quando mi dà l’indirizzo del Centro Antiviolenza in cui è seguita, assieme ai suoi due figli. Mi dice, senza imbarazzo, che segue un percorso di psicoterapia anche lei e che, con i figli, temporaneamente vive dai suoi genitori. Con un po’ di sacrificio fra un po’ riusciranno tutti e tre a trasferirsi nella loro prima vera casa.
Poi, mi racconta.
Mi racconta dei regali che seguivano i ceffoni. Del biasimo da parte della famiglia e degli amici, dell’incredulità di quanti conoscono il marito (consulente bancario) e sanno quanto questi sarebbe una persona perbene.
Mi racconta di quando ha pensato che sarebbe morta e, solo allora, ha avuto il coraggio di denunciare.
Mi si stringe il cuore, quando le chiedo come è riuscita a trovare la forza di fare tutto questo.
E allora lei mi spiega che, di 90 denunce per maltrattamenti, solo 3 vanno davvero avanti e che, sì, di forza ce n’è voluta tanta. Specie quando gli assistenti sociali le volevano togliere i figli perché, una donna che resta in famiglia pur subendo i maltrattamenti, non ha pensato al bene dei propri figli. Che non aveva un lavoro, non aveva dove andare, ma ha innescato lo stesso il meccanismo assurdo della burocrazia che continua ad assicurare a questo genitore i diritti di padre, ma mette in dubbio la sua capacità di madre e svilisce in modo vergognoso la sua dignità di donna.
Ha il volto un po’ stanco, questa mamma che deve aver affrontato cose che io ho solo letto nei libri o ascoltato nelle cronache del telegiornale. Ma ha lo sguardo sereno e, in fondo a quegli occhi, c’è una determinazione che solo chi ha lottato davvero può permettersi.
Si imbarazza un po’ quando mi confida che è bruttissimo vivere con una persona che non ti stima.
E qui sono stata davvero in silenzio.
Mi dice il nome dell’altra sua figlia, un nome particolarissimo che non avevo mai sentito, e penso all’amore, alla cura con cui devono averlo scelto. Penso alla delusione che si cela nell’apparenza composta e posata di questa donna. A come la sua idea di famiglia si sia sgretolata e alla fatica che compie ogni giorno per fare cose che io do per scontate, come prendere l’auto e portare mio figlio alla terapia.
Mi invita, quando si saranno sistemati, ad andarla a trovare nella sua nuova casa: non è molto grande, ma suo figlio e il mio potranno giocare insieme e ne avrebbe piacere.
Accetto molto volentieri e quando esce dalla mia auto, esco anche io per stringerle la mano e dirle che, per quel che possa valere, ha la mia stima.
Perché ho raccontato tutto questo?
Perché oggi accendo la TV e vedo il fiume di persone al Circo Massimo riunite per il Family day.
Leggo striscioni in cui due immagini stilizzate di donne che si tengono per mano e due uomini che fanno la stessa cosa (le immagini che ci sono sulle toilette, per capirci) sono seguite dalla scritta: questo è sbagliato.
Certo che è sbagliato, Dio Santo. Chi va al cesso in compagnia?
Che miseria, pure questo c’è scritto nel decreto Cirinnà?
Perché è chiaro, se si scende in piazza per esprimere il proprio dissenso all’espletare i bisogni fisiologici tutti insieme, beh, allora scendo in piazza pure io.
Ah, no. Si scende in piazza per difendere la famiglia. Per difendere i propri figli.
Da?
Spiegatemelo, io credo di avere qualche difficoltà.
Per quale misterioso motivo dovrei difendere la mia famiglia se due donne o due uomini si tengono per mano? Se si sposano, se adottano un bambino? In quale modo, questo mina la sicurezza della mia famiglia?
Mi toglieranno i miei figli, se verranno legalizzate le unioni civili?
Mi impediranno di vederli, se sarà permesso ad un uomo/donna di assistere il proprio compagno/a in ospedale?
Minchia, Ella, come sei egoista… non pensi al benessere dei resto dei bambini, magari quelli che sono orfani o abbandonati e non hanno una famiglia?
Giusto, pensiamoci.
Ecco, allora un bambino che non ha famiglia ha diritto ad averne una. Fin qui siamo tutti d’accordo. Poi però succede che non tutte le famiglie sono famiglie ed è necessario assicurarsi che la famiglia in cui questo bambino sarà accolto debba essere degna.
Eccerto che deve.
Quali sono le famiglie degne di tale nome?
Le famiglie tradizionali, dicono nel Family day. Come la famiglia della mamma a cui ho dato un passaggio ieri in auto, dico io.
Vedete, il problema secondo me è un altro. In Italia non c’è la cultura della diversità. Anche una mamma/papà che resta solo, per tutta una serie di motivi, è diverso. E in quanto tale, dovrà iniziare a lottare affinché i suoi diritti vengano riconosciuti o continuino a restare tali.
E ora mi domando: ma di cosa stiamo discutendo? Non si discute se una famiglia è degna di tale nome, se i componenti possono assicurare una vita sicura ad un bambino. Qui (anzi lì, al Family day), si discute di altro. Si discute sul fatto che due gay sono liberi di fare quello che vogliono, ma adottare no, sposarsi no, avere riconosciuti i propri diritti dal punto di vista legale no, perché (e cito Gandolfini) due gay non sono malati, però…
Però?
Però che?
Però avete deciso che, a priori, una coppia di fatto non è una coppia, perché è diversa da voi.
Avete stabilito che un bambino senza affetti non può essere adottato da una coppia gay perché quella non è famiglia.
Avete stabilito che, se la famiglia è composta da un uomo e da una donna, allora è una famiglia, tutto il resto no.
Perché voi sapete, e siete sicuri di questo, che gli altri sono indegni.
E lo sono perché, al riparo della loro casa, alla luce del giorno, nei gesti quotidiani, secondo voi si amano in un modo che non è il vostro modo.
E, cosa ancor più grave, in tutto questo discorso ci infilate la religione. Perché non è cambiato nulla, quello resta ancora lo strumento più potente con cui fare i lavaggi del cervello.
Volete lottare?
Lottate. Lottate con tutte le vostre forze. Ma lottate per ragioni reali.
Lottate come quella mamma, che davvero ha dovuto cacciare gli artigli per difendere la sua famiglia.
Lottate contro una burocrazia ipocrita, non per tenervi stretti il diritto di sentirvi dire che ti sei sposata? allora torna con tuo marito, perché quella è la tua famiglia.
Famiglia.
Family day.
Family is every day.