mercoledì 9 luglio 2014

Invio di un manoscritto ad una Casa Editrice: storia di una morte annunciata.

L’esordiente è un personaggio affascinante.
Non esiste individuo più entusiasta di lui riguardo il proprio lavoro, quello con la più innocente delle speranze nel mondo e con incrollabile fede nell’umanità.
Questo è ciò che lo sostiene durante la stesura del suo romanzo. No, no. Del suo capolavoro.
Nessuno ha creato un manoscritto così, prima d’ora.
Nessuno ha profuso tanto impegno in uno scritto quanto lui nelle sue parole.
È stato minuzioso. Quel file di 350 pagine è andato avanti indietro via mail per mesi, tra lui e i suoi “editor”, amici troppo garbati per rifiutargli qualcosa chiesto con tale, mal dissimulata disperazione. Ha accolto tutti i commenti con grande umiltà e ha rielaborato capitoli interi, due, tre, cinque volte. Poi li ha rimandati agli amici, per dimostrare di aver imparato diligentemente a fare la cacca nel vasino.
È stato rigoroso. Ha setacciato il web alla ricerca dell’impostazione corretta della punteggiatura. Ha tirato giù tutti i suoi libri preferiti e ha eseguito anche lì una verifica ulteriore: meglio abbondare che essere avari.
È stato severo. Ha letto tutte le biografie di scrittori famosi e quando ha revisionato la sua prima bozza ha sfrondato cinquanta pagine di soli avverbi. Poi altre cinquanta che non rispondevano positivamente alla domanda “è proprio necessario”? Poi ha visto che gli rimanevano altre 400 pagine e ha pensato che poteva smetterla di avere paura del discorso diretto libero e che poteva lasciare che ad una domanda seguisse una risposta senza tre paragrafi di riflessione in mezzo.
È stato oculato. Ha stampato tutto il manoscritto per revisionarlo anche pagina per pagina, perché gli errori che balzano all’occhio sul cartaceo sono sicuramente il doppio di quelli del formato elettronico. E poi doveva scattare un selfie con il malloppo, il nome dello pseudonimo che tanto faticosamente ha scelto in bella mostra sotto il titolo.
Okay, il nostro esordiente è davvero una personcina perbene e ha fatto tutto a modino.
La fase successiva è stilare una lista delle Case Editrici papabili. E qui inizia a vacillare.
Ha preparato una sinossi, una biografia, una lettera di presentazione. E parte dai “Big” perché lui ha scritto un capolavoro. Ma i “Big” sono di tutt’altro avviso. Su dieci CE di grossa nomea, un terzo accetta materiale di tipo informatico, il resto solo cartacei.
Da una parte si deve iniziare e di solito si parte con le mail. Ma ci sono delle regole. Alcune CE vogliono la sinossi e due, tre capitoli; altre non vogliono la sinossi, ma una lettera di presentazione dettagliata con il manoscritto completo; altre vogliono il manoscritto e una scheda di presentazione; altri vogliono la biografia con contatti nel corpo mail e in più “non dimenticate i vostri dati in allegato” (-.-); altri forniscono delle indicazioni precise, tipo step 1, 2, 3. Insomma, quando il nostro esordiente clicca su invio avrà venti pagine di word aperte, tutte con minime variazioni l’una dall’altra, e gli occhi che si incrociano.
Invia.
Distende la schiena e si rivolge ad un Essere Superiore che vegli su quella sua mail, inondandola di fortuna e benevolenza.
Poi, col sorriso sulle labbra, inizia a chiudere il caos che ha in barra inferiore.
E si sofferma su qualche riga, il nostro esordiente tanto speranzoso, perché pure le lettere di presentazione sono piccoli gioielli partoriti dalla sua mente.
“Gentile Editore, o scritto un romanzo sentimentale…”
Fermi tutti.
Rilegge. Poi rilegge ancora.
Lui, che nemmeno in terza elementare ha mai sbagliato l'ortografia di un verbo ausiliare, ha scritto, anzi, “a scritto”.
Tragedia.
Dramma.
Catastrofe.
Già pensa a come eseguire un seppuku impeccabile, perché chiaramente è l’unica cosa che gli rimane da fare. Suda, il nostro eroe, alle 00.39, mentre cerca di capire se il file incriminato, uno di quelli tagliuzzati qui e lì in cui il canc per rientrare nelle famose “3000 battute” è scivolato una volta di troppo, sia proprio uno di quelli inviati. Non si ricorda più in quale cartella l’ha inserito, non si ricorda più nemmeno a chi.
“Fa' che non sia un Big. Fa' che non sia un Big”.
La Casa Editrice era la Fazi.
E il nostro eroe esordiente, la sottoscritta.
L’episodio che vi ho riportato ha un solo scopo. Farvi ridere insieme a me.
Nella mia vita ho, fortunatamente o sfortunatamente, imparato che le priorità sono altre. Se la Fazi dovesse accettarmi, ciò non cambierebbe la mia esistenza. Lo stesso accadrebbe se non dovessi ricevere risposta (credo di essere stata la prima autrice a sperare che il file venisse cestinato a priori). Scrivo per passione, necessità interiore, voglia di comunicare. Pur con la consapevolezza che il mio romanzo non è perfetto e che l’intervento di una Casa Editrice potrebbe migliorarlo sicuramente, io bramo di condividerlo con voi e so che accadrà. In un modo o in un altro.
Non siate troppo severi con voi stessi, non prendetevi eccessivamente sul serio.
Ridete.
Ridete di voi, delle situazioni in cui il caso vi fa precipitare, ridete più che potete.
Sono tante le cose che ci strappano una lacrima, ma se è di gioia, allora sì che vale la pena versarla.



sabato 5 luglio 2014

Dall’autopubblicazione all’editoria tradizionale: che fine farà questo libro?

Quando ero studentessa alle medie, avevo un professore di matematica simpaticissimo. Le sue lezioni non stancavano mai, perché era bravo: sapeva come rendere la materia che insegnava attraente a venticinque alunni che non erano più bambini, ma non erano nemmeno adolescenti. Tuttavia matematica era sempre matematica e io mi distraevo facilmente. Una volta mi beccò mentre con una compagna ci scambiavamo messaggi sui diari: interruppe la lezione, mi si avvicinò, prese un post-it e mi chiese un autografo.
Momento di silenzio.
Un autografo a me? Era chiaramente una beffa, ma lui lo disse con serietà. Mi fece firmare quel foglietto e lo conservò nella sua giacca. Io, che ero diventata di tutti i colori dell’Universo, non sapevo più dove nascondermi ma poi, prima di riprendere la lezione, lui disse una frase (che mi pare sia attribuita o comunque collegata a Socrate): “Le cose belle sono difficili, le cose difficili sono belle”.
Nel corso degli anni l’ho sentita in altre occasioni, ma quella prima volta mi è rimasta impressa. Senza puntare sulla mortificazione per la mia distrazione, quel professore aveva attirato l’attenzione sul fatto che non seguissi la lezione e che, forse, lo facevo perché la trovavo difficile. Probabilmente la trovavo solo noiosa, ma lui aveva colpito un nervo scoperto. Mi aveva sfidata, ma nello stesso tempo mi aveva dato una possibilità di mettere alla prova me stessa, di dimostrare che, a fare qualcosa bene, ci si riusciva con l’impegno e la volontà.
Nella mia vita ho adorato la letteratura, avuto una grossa inclinazione alle materie artistiche, ma ho seguito una formazione prettamente scientifica. Non credo sia dipeso da quell’episodio, ma a distanza di anni e anni, io quella lezione non l’ho mai dimenticata.
Perché vi ho fatto fare questo viaggio nel tempo? Adesso ci arrivo.
Nei post “Il punto della situazione #1 e #2” ci sono le motivazioni che mi hanno spinta a ritirare la ff e revisionarla, per cui non mi dilungherò a riguardo.
Quello che voglio dirvi è questo: prendere la storia, modificare un paio di cose e pubblicarla era allettante, ma non sarebbe mai stato nelle mie corde. Se avessi saputo al tempo cosa avrebbe realmente comportato riscriverla (perché è capitato questo, e ve ne parlerò a tempo debito), è probabile che ci avrei pensato molto, ma molto meglio. Ma le cose belle non sono mai semplici e “Manuale della perfetta adultera” è stata una riscrittura complicata, impegnativa, a tratti logorante. Ma è stata un’esperienza stupenda. Se non avessi avuto il sostegno di persone straordinarie, in primis la Prof, sono certa che sarei ancora al capitolo quattro. Quindi, punto primo: le cose belle sono difficili.
Adesso veniamo al dunque.
La riscrittura si è conclusa, brava. E ora? Che ne facciamo di queste 350 pagine?
Dissi in uno dei post che ho citato sopra che a revisione completa avrei deciso il destino del libro. Questo romanzo vedrà la pubblicazione in ebook e (se riesco) anche in cartaceo.
Quando?
Dipende da diversi fattori. Il primo è la modalità di pubblicazione. Io credo nell’editoria tradizionale e ho una sana allergia per quella a pagamento (a questo proposito mi viene sempre in mente la risposta negativa per eccellenza: “Mai, nemmeno se mi paghi”. Se devo pagare per pubblicare, c’è qualcosa che non torna e la matematica, diceva sempre quel professore tanto simpatico, è un’opinione solo nell’infinitamente grande e nell’infinitamente piccolo). Cosa significa questo? Dobbiamo aspettare che una casa editrice accetti di pubblicarti?
Per l’amor di Dio!
Credere nell’editoria tradizionale, per quanto mi riguarda, significa credere nell’importanza di certe figure: il correttore di bozze, l’editor, i grafici, gli esperti di promozione e marketing, i librai e i venditori in genere. Nello stesso tempo, però, significa anche non poter ignorare la crisi profonda che l’ha colpita e quindi l’editor si trova a fare il correttore di bozze per pochi spiccioli; i librai chiudono perché molti non riescono a stare al passo con il fenomeno in crescita esponenziale degli ebook; il marketing e la promozione vengono fatti esclusivamente sull’onda del prodotto che “tira” al momento, spesso a discapito di piccoli capolavori che resteranno sempre nell’ombra solo perché non hanno visto la luce nel momento storico più favorevole; i grafici sfornano copertine “stampino” e sembra che i libri siano un po’ tutti uguali (forse, alcuni lo sono pure). Non è sempre così, mi dicono, ma purtroppo non è raro.
Lo sconforto in cui cadono molti scrittori esordienti porta alcuni di essi a cercare scappatoie (vedi l’EAP) o a lanciarsi nel self-publishing ritenendolo l’unico mezzo fattibile per potersi vedere finalmente pubblicati.
Io non credo che il self-publishing sia una via più semplice rispetto all’editoria tradizionale. Semmai è il contrario. Occuparsi in modo indipendente di tutti gli aspetti di una pubblicazione non solo è impegnativo, ma toglie anche molto tempo alla scrittura, specie per persone che fanno altro (e in Italia penso che si contino sulle dita delle mani gli scrittori che non affiancano a questa, anche un’altra professione).
Io vedo l’autopubblicazione come una sfida e come una possibilità.
E come per tutte le possibilità che si hanno a disposizione, affinché si riesca a trarne il maggior beneficio da esse, è necessario dedicarsi con impegno e rigore. Capirete bene che questo, per una come me, significa mesi di lavoro aggiuntivo a quelli della scrittura.
Quindi, punto secondo: le cose difficili sono belle.
Poiché temo di non voler concludere con un solo libro la mia avventura nel mondo della parola scritta, e con il passare del tempo di certo non ringiovanisco, mi sono data una scadenza che ritengo fattibile per la pubblicazione: la fine di quest’anno.
Salvo imprevisti. In parallelo allo studio minuzioso dell’autopubblicazione, seguirò anche la strada tradizionale. Magari non porterà a nulla, magari sarà un no dritto sul muso, magari sarà solo silenzio, ma se non lo faccio sarà un fallimento in partenza, perché avrei io rinunciato e questo è un atteggiamento che non mi apparterrà mai.

Data approssimativa per la pubblicazione: dicembre.