Di recente ho avuto molto tempo da dedicare all’esternazione
del mio io più profondo. Praticamente tutti i giorni ho intrattenuto una
conversazione con qualche tecnico della Telecom che, con finta gentilezza, s’è
dichiarato al mio servizio per ripristinare la connessione internet ballerina.
In quaranta giorni, quindi, sono passata attraverso tutte le sfumature della
speranza, pazienza, condivisione, sopportazione, irritazione, rabbia, furia.
Poiché, puntualmente, le telefonate Telecom arrivano all’ora di pranzo o cena
con domande più o meno imbarazzanti (“Signora, qual è il problema? Avete
testato il modem? Avete cambiato i filtri? Avete staccato la testa a vostro
marito? Adesso siete connessa? Navigate? Io vi vedo allineata …”), il computer
è rimasto acceso per giorni interi in perfetta immobilità e, quindi, ho avuto
modo di dedicarmi alla visione di alcuni film che sostavano in doppia fila su
un pc ormai stracolmo da troppo tempo.
(Piccola postilla: non credete MAI a ciò che sostengono
questi operatori. Vi raggireranno in tutti i modi più subdoli per convincervi a
non disdire il contratto, vi prometteranno di interessarsi al vostro caso, di
monitorare la vostra linea per 48 h – io dopo questo tempo trovavo le
segnalazioni effettuate, chiuse per avvenuta riparazione. Informatevi, non
accontentatevi, lottate. Dopo raggiri vari, minacce, coercizioni sono approdata
qui e ho visto la luce. E ora Telecom vedrà il buio. Tutto
GRATUITAMENTE, ovvio).
Ad ogni modo, vi consiglio i film che meritano, as always.
“La grande bellezza”, anno 2013, di Paolo Sorrentino. Come saprete,
la pellicola ha vinto l’Oscar come migliore film straniero, dopo aver vinto il
Golden Globe, e ne sono felicissima. È stato molto criticato, ma io ho fatto il
tifo per questo film surreale, crudo e cinico, aspro e commovente. Paolo
Sorrentino mescola la purezza della poesia allo sfiorire di una Roma ormai
decadente e usa come filtro gli occhi di uno scrittore “in blocco”, sfruttando
il suo malessere più intimo per portare in luce la pochezza dell’essere umano,
le paure e “le grandi brutture” dell’animo. Non è un film che lascia una bella
sensazione addosso, ma si fa pensare a lungo. Consigliatissimo.
“Saving Mr. Banks” (Saving Mr. Banks), anno 2013, di John Lee Hancock. Confesso
qui di essere una vecchia fan di “Mary Poppins”. Sono una di quelle che si
incollava alla televisione quando davano questa pellicola, pur senza resistere
quasi mai fino alla fine del film (ricordo che era abbastanza lunghetto ed io
mi pregiavo di riuscire a dormire ovunque ci fosse una superficie abbastanza
solida da reggermi. Ah, bei tempi!). Sognavo un uomo come Bert, con la stessa
allegria e positività, e, come avrei scoperto dopo qualche anno, una borsa come
quella di Mary (la cerco ancora, eh). E’ stato uno step naturale, dunque, lasciarmi
incuriosire dal film di come i romanzi della Travers siano passati al grande
schermo. E sono rimasta piacevolmente stupita. Saving Mr. Banks è di una
delicatezza sconfinata, con due attori d’eccellenza che rendono
meravigliosamente i dettagli fisici e comportamentali di una situazione d’impasse che dura da vent’anni (nel film,
la Travers è ostinatamente restia a concedere la sua Mary al Signor Disney,
nonostante nella realtà i diritti cinematografici erano già stati concessi
quando la scrittrice giunse a Los Angeles per discutere della sceneggiatura).
E’ divertente, toccante (ho pianto e, sono certa, piangerei ancora a rivedere
un paio di scene), ben interpretato. E, ovviamente, è consigliato.
“All is Lost – Tutto è perduto” (All is
Lost), anche questo anno 2013, di J.C. Chandor. Qui ci vuole un minuto
di silenzio. Prima di tutto, perché nel film ci saranno forse quattro battute
di dialogo in tutto. Secondo poi, è stato un tuffo (letterale) tra i ricordi.
E’ la storia di un naufragio, come forse ce ne saranno tante altre e simili, ma
solo chi ha fatto vacanze come le mie può comprendere il grado di empatia che
ho provato guardando questa pellicola.
Il trailer qui.
Qui inizia un post a parte, di cui non posso proprio fare a
meno, ma che siete liberissimi di saltare a piè pari.
Guardando quest'ultimo film ho avuto la certezza della sacrosanta
imprescindibilità di alcuni fatti: 1) Se la sfortuna inizia a seguirti in mare,
ti abbandona solo quando metti piede in terra. 2) Le persone sono fatte per
camminare. Non per nuotare, non per oscillare su quella che chiamano
orgogliosamente barca e, vai a vedere, trattasi di un guscio di noce. 3) Tutto
si può risolvere con una bella chiacchierata.
Nella mia vita ho avuto la “fortuna” di andare in vacanza
due volte su una barca, per una settimana. Al tempo ero accecata
dall’ammmmmmore e per il mio fidanzato avrei sopportato ogni tipo di sacrificio
(infatti l’ho sposato ed è diventato mio marito); ho fatto scorta di anticinetosici perché soffro il mal di mare,
ho duellato con mia madre per convincerla a lasciarmi partire (tutti sono
moderni quando NON si parla della propria bambina), ho ficcato il cuscino nella
valigia (non parto MAI senza il mio cuscino) e mi sono lanciata all’avventura.
Da dove vengono le certezze che ho numerato sopra?
In ordine: ho scoperto che, su di me, gli anticinetosici non
funzionano. Nausea perenne e rincoglionimento da farmaci, fin quando non
scendevo a terra barcollante e mi schiantavo sotto un albero (mentre tutti
sguazzavano in spiaggia). Ho diviso la cabina con una tanica di nafta che s’è
rovesciata, diffondendo i suoi effluvi per tutto il viaggio. S’è staccato un
tubo del gas e per due giorni non abbiamo potuto cucinare. Abbiamo incrociato
un temporale forza 8 e, in seguito, perso il gommone con cui scendevamo a terra.
Il fidanzato-futuromarito ha avuto un ascesso al dente, in pieno agosto, su
un’isoletta sperduta dove non ci dispensavano nemmeno una confezione di novalgina senza ricetta medica; la sottoscritta un herpes labiale che le ha preso metà
viso. E poi, punture di meduse, scarpinate a prova d’infarto e in rada per
tutto il tempo. Il viaggio della speranza.
Comprendo, perciò, il motivo per cui in film come “All is
lost” (mai titolo fu più azzeccato) ricorre sempre la scena in cui l’uomo (è
sempre un uomo, sta poco da fare. Nessun altro, donna o persona sana di mente,
si lancerebbe in un’avventura del genere) saluta l’alba nascente con un sorriso
appena accennato sulle labbra: è il sorriso del sopravvissuto. Ovviamente,
anche se il protagonista di questa pellicola sembra essere perseguitato dalla
sfortuna, è un film che consiglio senza dubbio: se non altro per l’aplomb straordinario di Robert Redford,
gnocco di potenza mondiale anche a settantasette anni, che si fa sfuggire un
“cazzo” appena sussurrato solo a film quasi concluso (al contrario della
sottoscritta che inventa parolacce all’occorrenza, quando quelle conosciute
risultano insufficienti) e, dopo peripezie di ogni genere, conserva comunque
una penna biro funzionante e gli occhiali da vista.
Un miracolo senza dubbio.